Il caso Montante, ovvero quando un silenzio sembra volerci parlare più di mille discorsi

montanteantonellodi Mario Meliadò - Aveva ragione chi scrisse, al momento della deflagrazione della vicenda degli opinabili bilanci de Il Sole 24 Ore, che «lo scandalo Confindustria è solo all'inizio»? Indipendentemente dall'operato dell'ex direttore Roberto Napoletano, che secondo alcune ricostruzioni sarebbe prepotentemente alla radice dei guai finanziari della prestigiosa testata economica, pochi giorni fa per viale dell'Astronomia è arrivato un potentissimo secondo round, con l'inchiesta "Double Face" che ha prodotto l'arresto addirittura del responsabile nazionale Legalità dei confindustriali, l'ex guida di Confindustria Sicilia Antonello Montante, nisseno di San Cataldo. Che insieme all'attuale presidente di Unioncamere, il catanese Ivan Lo Bello, è poi colui che una dozzina d'anni fa firmò un clamoroso New Deal legalitario confindustriale nell'isola, talmente evocativo da "contagiare" positivamente l'intero scacchiere nazionale; ma è anche lo storico "sangiovanni" del boss di Serradifalco Vincenzo Arnone.

Fatto sta che quest'arresto "eccellente" ha repentinamente ammutolito anche i protagonisti più ciarlieri della politica e dell'economia.

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Memorabile la dichiarazione dell'attuale presidente nazionale di Confindustria Vincenzo Boccia, peraltro non "a caldo" ma un paio di giorni dopo i fatti: «È stato un fulmine a ciel sereno». Per esser valutata adeguatamente, quest'asserzione va comparata con la circostanza che Antonello Montante ormai dal 2015 non è più la "stella dell'antimafia" targata Confindustria; non foss'altro, perché da tre anni risultava invece indagato per mafia. L'indagine di oggi – che vede tra gli indagati pezzi delle istituzioni come l'ex presidente del Senato Renato Schifani, l'ex presidente della Regione Sicilia Saro Crocetta, l'ex dirigente della Prima Divisione del Servizio centrale operativo della Polizia Andrea Grassi, l'ex capocentro della Direzione investigativa antimafia di Palermo Giuseppe D'Agata in atto ai domiciliari – è peraltro coordinata dal procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci: quello che scoprì e fece arrestare il "falso pentito" Roberto Di Stefano, uomo dei Rinzivillo che non per niente pianificava l'uccisione del magistrato.

Desolante silenzio sull'arresto eccellente anche dall'altra parte dello Stretto.

Nessuna presa di posizione ufficiale, giusto qualche battuta a margine di qualche iniziativa pubblica, come quelle pronunciate dal presidente di Unindustria Calabria Natale Mazzuca: «Ho avuto modo di conoscere Montante per il comune impegno in seno agli organi statutari di Confindustria. Mi riferisco in particolare al Consiglio delle Regioni e al Comitato Politiche di coesione territoriale che ho l'onore di presiedere. Posso rappresentare un impegno corretto e attento in direzione dell'affermazione della legalità come elemento di sostegno alle imprese e all'economia», ha dichiarato Mazzuca. E nel merito delle gravissime accuse mosse? «Non si può parlare intorno a ciò che non si conosce», si capisce.

...Un silenzio assai singolare, specie a distanza di giorni dalla misura cautelare, specie se si considerano alcuni dati: proprio Confindustria Calabria, ai tempi della presidenza di Umberto De Rose, era tacitamente nel mirino della coppia Montante-Lo Bello perché considerata (a torto o a ragione) recalcitrante al cambiamento, troppo accondiscendente con gli imprenditori collusi o quantomeno pronti a pagare il "pizzo" ai clan senza fare troppe storie.

Già, proprio sull'ammissibilità nella galassia confindustriale degli imprenditori che pagavano la tangente alle 'ndrine si consumò l'attrito più forte. Anche perché De Rose non se la sentiva proprio di dire che chi si sottometteva alle estorsioni mafiose andava escluso da Confindustria, in considerazione per esempio dell'enorme numero d'imprenditori nella morsa dei clan (almeno uno su tre in tutta la Calabria, erano le stime correnti, con picchi decisamente più elevati nel Reggino): «C'è il rischio che si ribalti il problema e che si assegnino all'imprenditoria le responsabilità del degrado mafioso e dell'ingerenza del racket, questioni che invece appartengono allo Stato e ai suoi doveri», ebbe a dire.

Una situazione che in un modo o nell'altro "doveva" cambiare; anche perché dopo il varo del famosissimo "Codice etico" da parte di Confindustria Sicilia restare indietro sul terreno del contrasto alla permeabilità mafiosa delle aziende sarebbe apparso un chiaro segnale di lassismo morale (peraltro, le storie di minacce, rotative bloccate da un momento all'altro e "cinghialoni" erano ancòra di là da venire). Difficile accettarlo, specie dopo una presidenza come quella di Pippo Callipo che aveva incarnato il "top" della tensione etica dei confindustriali calabresi. Eppure, dell'espulsione degli associati che cedevano pagando la "stecca" alle cosche, proprio il "re del tonno" aveva detto con chiarezza: «Non ha senso, è solo un'operazione di marketing. Non serve a nulla. Nel Mezzogiorno, allora, dovremmo espellere l'80-90% degli associati».

Ma cambiare "si doveva".

E allora arrivò, chiaro, la sottoscrizione del Codice etico. E arrivarono le cento aziende sbattute fuori da Confindustria Reggio Calabria da un momento all'altro (o meglio: "non ammesse", precisò elegantemente Umberto De Rose, come ad avallare la circostanza che i confindustriali avessero il costume di operare una rigorosa selezione degli iscritti in base al loro rigore antimafia). Arrivò, soprattutto, il momento di "rilanciare", attraverso una campagna mediatica congiunta Confindustria Calabria-Ance Calabria emblematicamente denominata Io il pizzo non lo pago («Chissà quanti altri hanno il mio stesso problema – recitava lo screenplay emozionale dello spot tv –, chissà quanti altri vogliono lavorare, dare lavoro, fare impresa e vivere da cittadini liberi... Io ho deciso di fare questo passo, anche da solo!»), tenuta a battesimo dall'allora procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, che nelle intenzioni doveva servire da grimaldello motivazionale affinché fioccassero le "denunce di gruppo" da parte degli imprenditori vessati nei confronti dei loro estorsori.

Alla luce di tutto questo, non sentire fiatare gli imprenditori reggini e calabresi e i loro rappresentanti di categoria dopo i fatti gravissimi contestati a Montante (ne ricordiamo qualcuno? Avrebbe realizzato dossier per "incastrare" protagonisti "scomodi" della vita politica, economica e sociale del Paese; avrebbe foraggiato con ingenti somme importanti testate giornalistiche per "comprarne" l'appoggio; avrebbe avuto a libro paga funzionari delle forze dell'ordine e dell'intelligence per "scucire" loro indiscrezioni sulle inchieste a suo carico...) ci sembra un paradosso amaro, per quanto figlio di un comprensibile shock.

Ma non stiamo parlando di quella Confindustria che, nelle sue propaggini reggine, sostiene che per ribellarsi allo sfacelo prodotto dalle 'ndrine occorre «avere il coraggio di denunciare»? Non stiamo parlando (anche) di chi meno di una settimana fa ha ribadito l'urgenza di accelerare per far nascere lo Sportello antiracket «a tutela dell'economia sana»? Capiamo bene il momento in cui varie circostanze, in molti casi di stretta opportunità..., fanno improvvisamente riscoprire un certo ultragarantismo assai più "a bacchetta" di quanto mai "a bacchetta" potesse essere stato in passato un certo giustizialismo, ma siamo sicuri che sia questa la strada giusta da intraprendere nella vera Calabria 2018 (e non quella che noi tutti amiamo immaginare e la cui idea nei nostri sogni segretamente coltiviamo)?

Forse non sarebbe male, in momenti di sconcerto e confusione, piazzare nuovamente dei "paletti etici" credibili. Per esempio, circoscrivere meglio e anche alla luce di questi sviluppi il concetto di «economia sana» che si desidera per il futuro della Calabria e del Paese. E forse non sarebbe poi malaccio comprendere e far comprendere che la criminalità organizzata si nutre anche di simboli, e che il silenzio quasi ostentato a fronte d'episodi clamorosi è tra i simboli più poderosi di cui ama alimentarsi.

E forse, nel prefiggersi una realtà «in grado di produrre anche in Calabria i risultati straordinari ottenuti in Sicilia», visto che di Sicilia e di Sicindustria parlano, i rappresentanti del segmento imprenditoriale reggino e calabrese che finalmente si ritrovano propositivi in chiave legalitaria dovrebbero, però, estendere il loro ragionamento pure alle più recenti notizie di cronaca; considerato anche il pesantissimo riverbero negativo in termini d'immagine, che nell'opacità del silenzio generale rischia di compromettere quanto di buono già fatto in passato nella medesima direzione sul territorio calabrese, e anche i lodevoli fermenti in gestazione.