Le falle nella normativa sugli scioglimenti antimafia: in Calabria oltre 25 anni di fallimenti e di gracili ipotesi alternative

Fascia Sindaco 500di Mario Meliadò - La normativa che dal 1991 prevede il possibile scioglimento di un Comune (ma anche di un qualsiasi altro Ente: per esempio un'Azienda sanitaria, come dalle parti di Reggio Calabria sappiamo discretamente bene), prende emblematicamente il nome di "decreto Taurianova", per motivi legati alla cronaca e ormai alla storia di questo pezzo di Tirrenica reggina, a causa insomma della tristemente nota "strage del venerdì nero" del 3 maggio del '91 appunto, che portò alla rapidissima definizione – il 31 dello stesso mese – proprio del decreto legge n. 164.

Per la verità, la faida di vittime ne vide 32 fra l'89 e il '91.

Ma è anche vero che negli anni successivi accadde qualcosa di politicamente (ed eticamente) assai discutibile: un secondo scioglimento per infiltrazioni mafiose (2009) colpì il centro pianigiano quando da poco era stato eletto sindaco Domenico Romeo, che però poi si ricandidò al ruolo di primo cittadino e di nuovo conquistò la sindacatura e di nuovo vide l'Ente taurianovese sciolto per 'ndrangheta (2013) per la terza e (finora?) ultima volta.

Dei recentissimi risvolti di cronaca e dell'arresto dello stesso Romeo potete leggere su queste stesse colonne digitali. Adesso, però. Prima, proprio i ripetuti e ravvicinatissimi scioglimenti per mafia che avevano colpito Taurianova, oltre che a un grappolo di altri centri del Reggino avevano ispirato una corrente di pensiero significativa intenzionata a ridiscutere quelle regole, e a evitare per il futuro una simile messe di scioglimenti e di «azzeramento della democrazia».

In parecchi, hanno insinuato dubbi sulla validità del meccanismo: sicuramente da ricordare l'iniziativa del movimento Liberi di ricominciare, che di situazioni intricate come quelle di Platì e San Luca aveva fatto una sorta di vessillo di libertà, come pure del consigliere metropolitano (allora, consigliere provinciale) Pierpaolo Zavettieri.

Negli anni a noi più vicini, a parte il caso Taurianova, due scioglimenti su tutti hanno lasciato adito a perplessità particolarmente intense: Roccaforte del Greco (2011), amministrata da Ercole Nucera, e più di recente Marina di Gioiosa Jonica (22 novembre scorso), centro il cui sindaco Domenico Vestito era peraltro vicepresidente nazionale di Avviso Pubblico.

Ma il nodo affrontato dai detrattori del decreto riguardava e tuttora riguarda in realtà l'efficacia della misura: anche quando gli Enti sono stati sciolti per mafia, dicono in molti, le incrostazioni malavitose non sono state rimosse.

C'è altro? Certamente sì.

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Per esempio, la normativa vigente non affronta in alcun modo quello che secondo molti fini conoscitori dell'arte politico-amministrativa è il vero tunnel carpale di moltissimi Enti: il tessuto di corruttela e connivenze che si annida dalle parti dei burosauri. Si potrebbero citare parecchie inchieste anche recenti che hanno scritto parole importanti sul tema, ma restiamo sul profilo normativo: non-una-parola-di-legge sui dirigenti, sui funzionari, su come prevenire efficacemente al di là dei Piani anticorruzione sulla carta fantastici, ma che nella sostanza richiamano alle mente quel Consiglio regionale di qualche anno fa in cui il Codice etico (!) ebbe tra i firmatari più di un consigliere poi finito in manette con l'accusa d'associazione mafiosa.

Ma la vexata quaestio riguarda sopra ogni altra cosa la diffusa inefficacia (in certi casi, anche perniciosità...) dell'azione di alcuni commissari prefettizi. Ci sono esempi fulgidi, basti pensare solo a quel che di San Luca ha fatto Salvo Gullì: proprio alla luce di questi magnifici esempi, si può dire con più vigore che di rara avis stiamo parlando.

E certo va detto con la massima fermezza possibile che, se la norma sugli scioglimenti sarà effettivamente rivista, occorrerà vincolare i funzionari dello Stato che giungono ad amministrare: a) a un'effettiva, perdurante, esclusiva presenza e operatività sui territori, in alcuni dei quali i commissari prefettizi paiono avere la stessa impalpabilità e scioglievolezza del Fantasma Formaggino; b) alla predisposizione fin dal proprio arrivo di un piano credibile d'ascolto della cittadinanza e dei corpi sociali, e di comunicazione e rendicontazione della propria attività a una comunità che, peraltro, non li ha scelti e non li ha eletti; c) a serie forme di responsabilità contabile, e non solo, in relazione agli effetti degli atti prodotti, ma forse ancor di più degli atti non prodotti in caso d'inescusabile inerzia. Ancorare l'azione di elementi di governance a piani di misurabilità è un dovere, prima che un istituto di buonsenso.

E non solo. Perché se arrivano i commissari dopo uno scioglimento per mafia, e dopo un paio d'anni dal loro commiato lo stesso Ente locale torna magari a essere sciolto per mafia, i punti interrogativi sulla conseguenzialità dell'operato d'importanti articolazioni dello Stato s'infittiscono. E in alcuni casi lasciano il campo a pesanti dubbi circa un "torcicollo mirato" che porta certe significative propaggini della Pubblica amministrazione a usare la lente d'ingrandimento in alcuni casi, e più spesso però a non guardare affatto, anzi a girarsi dall'altra parte: inaccettabile, specie per plenipotenziari inviati per rimediare alle infiltrazioni della 'ndrangheta nel corpo di un Ente.

Tra le distorsioni, balza all'occhio poi il dato statistico rilevato in questi giorni dall'ex assessore regionale al Bilancio Demetrio Naccari Carlizzi e dall'economista dell'Università "Mediterranea" Domenico Marino: possibile che nell'ultimo lustro siano stati localizzati in Calabria 43 degli 81 Comuni sciolti per mafia? Camorra, Cosa Nostra, Sacra Corona Unita sono in vacanza?

Al contempo, a qualche settimana dalla missiva inviata al ministro dell'Interno Marco Minniti da 51 sindaci calabresi per protestare contro quello che da molti amministratori e cittadini è percepito come un sostanziale "commissariamento della Calabria" intera, viene da chiedersi quanto gradirebbero sindaci e consiglieri l'auspicata soluzione di un «affiancamento nell'attività amministrativa degli organi politici da parte di una task force specializzata» tenuta a destraordinarizzare l'attività di verifica anticlan. Meglio prevenire, si dirà. Epperò, una struttura simile suonerebbe potenziale detentrice di un costante, formidabile "bollino blu" sull'antimafiosità di questo o quell'Ente: a orecchio, risulterebbe un Moloch ingombrante destinato a creare una sorta di "commissariamento per mafia permanente", piuttosto che smontarlo.

Allora sarà meglio rinunciare, per il futuro, a sciogliere per mafia qualsiasi Ente?

Il dubbio s'insinua prepotente, sulla scorta di un bilancio ultraventicinquennale particolarmente negativo e anche per via dell'ampio spettro interpretativo della norma. Che non richiede necessariamente previe condanne o misure cautelari, ma si fa bastare mere "infiltrazioni" (o "contiguità", come nel caso del Comune di Reggio Calabria) di dubbia unidimensionalità. Potrebbero esserci supporti esterni, "accompagnamenti" fors'anche pluriennali; misure che consentirebbero oltretutto di non buttare a mare il suffragio degli elettori. Soprattutto perché in numerosi casi lo scioglimento di un'Amministrazione viene in realtà fondato su evenienze che affondano le radici nella consiliatura precedente (magari, a trazione di ben diverso colore politico) con conseguenze particolarmente inique e aggravabili da un eventuale verdetto d'incandidabilità su questo o quell'amministratore. Se però il germe 'ndranghetistico ha concretamente contagiato la sfera politica e di rappresentanza all'interno di un Ente, temiamo si palesi la gracilità d'ipotesi alternative allo scioglimento.